Il Giorno del Ricordo è una solennità civile nazionale istituita nel 2004 per conservare – come recita la legge istitutiva – “la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime di foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati, nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale”.
Si parla quindi espressamente di tutte le vittime di foibe (non solo di alcune) e di una vicenda che si presenta – come avverte la storiografia più accreditata – piuttosto complessa. Da tempo, invece, assistiamo – purtroppo talvolta anche in sedi istituzionali – ad un uso quantomeno riduttivo di tale ricorrenza, indicata come giornata di commemorazione delle “vittime del comunismo”.
Si tratta di un’interpretazione che distorce la realtà dei fatti e non aiuta a comprenderli: ridurre il dramma delle foibe a “crimine comunista” (magari per parificarlo ai crimini nazifascisti) è, oltre che aberrante dal punto di vista storico, oltraggioso per una corretta memoria delle vittime, di tutte le vittime. Pertanto, come Jesi in Comune, non ci sembra fuori luogo cogliere l’occasione per ripercorrerli, sebbene in estrema sintesi.
Le vicende che hanno interessato la Venezia-Giulia e l’Adriatico orientale nel corso della prima metà del Novecento sono, come detto, complesse e per tentare di caprie quanto accaduto è fondamentale contestualizzare gli eventi: quel che accade nel 1945 – quando l’Europa sta uscendo da una lunga guerra provocata dal nazifascismo – è solo il capitolo finale della storia.
Il momento iniziale richiede di andare indietro nel tempo, agli anni immediatamente seguenti alla fine della prima guerra mondiale, quando il fascismo in Italia comincia la sua “scalata” al potere; è una fase in cui in questi territori di confine l’uso della violenza ha un ruolo strategico: le vittime sono evidentemente tutti gli antifascisti, ma a sloveni e croati si dedica un’attenzione particolare, perché nei loro confronti all’antagonismo politico si somma quello nazionale. Ed anche in seguito – nell’ambito della politica di “italianizzazione” – emarginare e perseguitare le minoranze etniche sarà una costante della dittatura fascista (ancora nel 1935 a Gorizia c’è chi viene ammazzato per aver organizzato un coro di Natale in lingua slovena).
Mussolini definiva il popolo slavo una “razza inferiore” verso la quale “non si deve seguire la politica che dà lo zuccherino, ma quella del bastone”. Dunque, non è fuori luogo affermare che la politica fascista verso i territori di confine con la Jugoslavia è sempre stata di sostanziale razzismo. In una circolare segreta del 14 Novembre 1925 – riservata ai prefetti – si leggono direttive di questo tenore: “Si vietino le scritte in slavo sulle tombe, vengano chiuse le società teatrali, biblioteche e cori (…) si arrivi all’italianizzazione dei nomi”.
E non va dimenticato che tra gli intenti del fascismo vi fu quello di fare della Croazia un “baluardo della cattolicità”, e che a questo scopo il regime di Mussolini sostenne il movimento nazionalista di Pavelic (gli ustascia). Ne scaturì il cosiddetto “Olocausto balcanico”: le chiese ortodosse vennero depredate e trasformate in chiese cattoliche o in stalle; i serbi furono costretti a circolare con una “P” sul braccio (che stava a significare “Pravoslavac”, ossia ortodosso), E nei locali pubblici era apposto il cartello: “Ingresso vietato a serbi, ebrei, zingari e cani”.
Ecco, è proprio se ci si sofferma sulle vittime che si comprende come parlare delle foibe quale semplice “crimine comunista” sia quantomeno riduttivo. La stagione di violenze che travolge la società giuliana comincia già nel 1920 con le prime azioni delle squadracce fasciste. E va avanti negli anni successivi senza una sostanziale soluzione di continuità. Poi – dopo lo scoppio della guerra – un primo momento “di svolta” rispetto al tema della violenza si registra nel 1941, allorché la popolazione civile slovena e croata resta coinvolta nelle operazioni di “controguerriglia” che i nazifascisti pongono in essere dopo l’occupazione della Jugoslavia. Tali operazioni interessano in primo luogo i territori annessi nel 1941, ma debordano presto anche entro i vecchi confini, estendendosi così ad un’area piuttosto vasta. Coinvolgimento della popolazione significa rastrellamenti, rappresaglie, eccidi e deportazione di decine di migliaia di persone nei campi di concentramento (sparsi anche in Italia). I nazifascisti instaurano tribunali speciali e giustiziano sommariamente chi combatte nella resistenza jugoslava. Numerose le testimonianze di soldati italiani presenti sia a tali esecuzioni, sia a crimini di guerra di altro genere. Tanto per fare un esempio, Il generale Ponticelli in una intervista rilasciata al quotidiano “Il tempo” dirà: “Quattro lustri di odio sono esplosi in un massacro che in un breve lasso di tempo ha avuto quale risultato lo sterminio di 350 mila serbi e decine di migliaia di altri (…). Tutti furono uccisi con torture inimmaginabili (…). Tutto può essere facilmente accertato ed apparire in tutta la sua atrocità (…). Gli orrori che gli ustascia hanno commesso sulle ragazze serbe superano ogni idea (…). Centinaia di fotografie confermano i misfatti subiti dai pochi sopravvissuti: colpi di baionetta, lingue e denti strappati, occhi estirpati, seni tagliati, tutto ciò accadeva dopo che erano state violentate”.
C’è poi un secondo “momento” da tener presente nella ricostruzione della vicenda: la “crisi” che fa seguito all’8 settembre 1943. In Istria, dopo il tracollo dell’esercito italiano si assiste a quella che qualcuno ha definito “una sorta di jacquerie popolare”. Ne restano vittima alcune centinaia di italiani, effettivamente gettati nelle foibe (il numero oscilla tra le 300 e le 700 persone); sono per lo più esponenti del fascismo, ma anche vittime di vendette personali. Nelle settimane seguenti però, per “ripristinare l’ordine” i nazifascisti provocano alcune migliaia di vittime tra i civili. Più precisamente, le operazioni di “riconquista” della penisola istriana da parte delle truppe germaniche, causano circa 10mila morti (secondo le stesse fonti tedesche) e comporta la devastazione di interi paesi. In quest’attività, le truppe fasciste italiane sono in prima fila; per oltre un anno a Lubiana i fascisti fucilano e gettano nella Gramosna Jama (un grosso fossato) gli ostaggi civili uccisi per rappresaglia, cioè quando i fascisti stessi subiscono perdite per mano di partigiani slavi. E per oltre un anno i fascisti italiani utilizzano una foiba poco distante da Pola per scaraventarvi i partigiani. Dunque, l’ordine di Mussolini (“Massacrate”) viene eseguito con zelo. Non a caso, dopo la fine della guerra ben 42 alti ufficiali italiani saranno denunciati al Tribunale dell’Onu per crimini di guerra.
Sempre in questi mesi, a Trieste nei confronti dei partigiani che fanno parte dell’organizzazione “Unità Operaia-Delavska Enotnost” (e lavorano in clandestinità nelle fabbriche e fanno azioni in città) la repressione è a dir poco feroce, e coinvolge non solo i militanti ma anche i familiari. Le persone arrestate vengono torturate, inviate nei campi tedeschi, uccise in risiera (il “campo della morte” della risiera di San Sabba entra in funzione proprio in questo periodo: non è solo un centro di transito per ebrei, ma anche luogo di eliminazione di massa di migliaia di prigionieri politici e partigiani: italiani, sloveni e croati). Tra le esecuzioni di maggior entità avvenute nel corso del 1944 ricordiamo almeno: 71 ostaggi fucilati ad Opicina il 3 aprile, 51 impiccati il 23 aprile (nell’attuale Conservatorio), 11 impiccati a Prosecco il 29 maggio, 19 fucilati ad Opicina il 15 settembre.
Ed eccoci così al terzo ed ultimo “momento” della vicenda: le stragi della primavera del 1945. Anch’esse richiamano le foibe, come nel 1943; tra chi viene ucciso e gettato negli inghiottitoi e chi viene deportato (senza ritorno) si registrano alcune migliaia di vittime. In maggioranza, ma non esclusivamente sono italiani. Vediamo più in dettaglio: siamo nel maggio del 1945: a Gorizia, Trieste, Fiume, l’esercito jugoslavo (alleato a tutti gli effetti degli anglo-americani) prende il controllo del territorio. E ci sono subito arresti di membri delle forze armate nazifasciste e di civili collaborazionisti. In questo modo scompaiono da Trieste circa 500 persone, 550 da Gorizia, circa 300 da Fiume. La maggior parte sono militari che vengono internati in campi di prigionia (non pochi di essi moriranno di stenti o di malattie). Circa 200 prigionieri invece (riconosciuti come rastrellatori e torturatori), da Gorizia e da Trieste vengono condotti in località in cui avevano operato; qui sono processati per crimini di guerra e nella maggior parte dei casi fucilati e gettati nelle foibe. Infine, ci sono le vittime di esecuzioni sommarie e di vendette personali.
Fin qui alcuni essenziali numeri. Ma due elementi devono essere precisati: a) gli eccidi di questo periodo, avvenuti per mano di esponenti dei “Comitati popolari di liberazione jugoslavi” in realtà hanno raramente a che fare con le foibe, perché vengono perpetrati in modo diverso: la maggioranza delle vittime muore infatti nei campi di prigionia jugoslavi o durante la deportazione; b) gli scomparsi non sono solo fascisti o collaborazionisti, ma anche esponenti del CLN (dunque antifascisti) ed anche sloveni che si oppongono al regime di Tito.
Questi, seppure in sintesi, i fatti che hanno portato alla tragedia delle foibe e all’esodo di istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra. Non si tratta di semplici “crimini comunisti” ma di una vicenda più complessa, dove colpe e responsabilità, come ben si vede, sono anche di altri soggetti. Può non piacere, ma questa è la storia.
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Jesi In Comune
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