La quinta parola è “fraintendimento”. L’autore dell’agiografia scrive a un certo punto – sempre nell’ottica di convincere i lettori – che dobbiamo “voler bene” a Morosetti perché, infine, il passato non si può fare a meno di accettarlo come è avvenuto. Il che implica (come poi viene esplicitato più sotto) “senza giudizi”.
Eh no, caro estensore dell’agiografia, qui ti sbagli di grosso: il passato anzitutto lo dobbiamo considerare così come è stato, ricostruirlo il più possibile così come è stato. Ma accettarlo o meno fa parte di un’altra dimensione, che chiama in causa i valori che una data società in un dato tempo ritiene validi. E allora, senza andare a scomodare religioni o morali, essendo cittadini italiani i valori a cui oggi facciamo riferimento sono quelli scritti nella Costituzione italiana. Forgiata in base agli ideali di chi il fascismo l’ha combattuto. Dunque il giudizio c’è già stato, è passato in giudicato e sta nella nostra carta fondamentale. Bisogna ricordarselo, specie se si riveste una funzione pubblica quale è quella di chi scrive su un giornale. Perché questa sorta di fraintendimento che da ormai un paio di decadi è prepotentemente entrato nei discorsi pubblici, nell’uso pubblico della storia, ha cominciato a prendere una china piuttosto pericolosa, al termine della quale c’è che allora “tutti erano uguali a tutti”, e che quindi noi oggi non dobbiamo fare differenza (e giudicare differentemente) tra chi si è comportato in un modo o in un altro, chi ha fatto una scelta e chi quella opposta. Ed è bene precisare, qui, che la cosa non riguarda solo un regime e i suoi apparati, ma riguarda anche i singoli, ognuno dei quali ha scelto da che parte stare. Perché, come ha scritto Voltaire, ai vivi si devono dei riguardi, ma ai morti si deve soltanto la verità (purtroppo però, – come canta il pavanese – Voltaire non ci ha insegnato ancora niente).

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Doriano Pela